Quando la Scienza incontra la Fantascienza

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QUANDO LA SCIENZA INCONTRA LA FANTASCIENZA

Unire scienza e fantascienza è possibile? È possibile applicare sul corpo umano esoscheletri come quelli visti in Iron Man, oppure sostituire un arto mancante come in Guerre Stellari?
La medicina negli ultimi trent’anni ha compiuto delle ricerche sensazionali e lo studio delle neuroscienze, insieme all’ingegneria biomedica, si avvicina moltissimo alle situazioni vissute dagli eroi del grande schermo.

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Ciò che fino a qualche decennio fa rappresentava la fantasia di registi e scrittori, ora è campo di studiosi e medici.
L’ingegneria biomedica per esempio utilizza le metodologie e le tecnologie proprie dell’ingegneria per comprendere, formalizzare e risolvere problemi d’interesse medico-biologico.
Senza dubbio la bioingegneria rappresenta uno strumento a disposizione della medicina del futuro, intesa come insieme delle diverse modalità per alleviare le sofferenze dei malati.
Ingegneria e corpo umano
Il nostro corpo è una macchina e una sua comprensione più meccanica è la sola che renda possibile il trattamento delle malattie con un’approccio non più “correlativo” (del tipo vediamo che succede) ma “causativo” (cioè so come funziona e per questa ragione uso questa strategia o diagnosi), come se si volesse riparare un motore.
Unito a questo l’importanza dello studio del cervello si sta rivelando fondamentale per scoprire le cause di moltissime malattie, dalla Sla (sclerosi laterale amiotrofica, malattia progressiva dei motoneuroni caratterizzata da rigidità muscolare, contrazioni muscolari e graduale debolezza a causa della diminuzione delle dimensioni dei muscoli) al morbo di Parkinson ecco perché le neuroscienze, con i relativi studi condotti sul sistema nervoso, rappresentano il futuro della ricerca medica.
La maggior parte degli scienziati e ricercatori lavorano fuori la nostra nazione.

Michele-Giugliano

Michele Giugliano
è uno dei tanti ricercatori che hanno trovato lavoro fuori Italia, è un bioingegnere e neuro scienziato di 44 anni, professore all’università di Anversa e visiting professor presso l’Università di Sheffield.
I suoi studi e ricerche, oltre ad introdurre nuovi studenti nel mondo dell’ingegneria biomedica, cercano di trovare risposte e soluzioni per quelle patologie o malattie del cervello che interessano il sistema nervoso.
L’importanza dello studio del cervello si sta rivelando fondamentale per scoprire le cause di moltissime malattie come la SLA e la sindrome di Parkinson. Già nel IV° secolo A.C. Ippocrate affermava che il cervello è l’organo sede dell’intelligenza ed è quello che ci rende uomini. Proprio per questo le malattie neurodegenerative e psichiatriche sono fra le più devastanti perché ci tolgono o compromettono quella caratteristica di umanità.
La psichiatria e la neurologia già da qualche tempo si orientano a un futuro in cui sostanze chimiche e trattamenti siano prescritti secondo dei principi precisi, acquisiti dallo studio del cervello ed è grazie allo studio di quest’ultimo che si è riusciti a sopprimere alcuni sintomi (il tremore) per mezzo della stimolazione elettrica profonda.
Sono un ingegnere elettronico e anche appassionato di tecnologia, i miei studi mi hanno permesso di analizzare il sistema nervoso nello stesso modo di un circuito elettrico.
Quando nell’adolescenza mi trovai nella difficile scelta dell’Università ho voluto specializzarmi proprio in un settore dove matematica e ingegneria potessero essere applicate per scopi medici.
Esiste una cosa che accomuna le ricerche di base sul funzionamento del cervello e le applicazioni odierne dei pacemaker cerebrali: si tratta del modo con cui i segnali elettrici delle cellule nel cervello vengono “letti” o misurati.
Questo avviene oggigiorno con varie metodiche, ma alla fine le più importanti storicamente sono quelle elettromagnetiche. Un po’ come si fa nel caso delle onde radio, così per il cervello si usano dei metalli (i.e. elettrodi) a fare da antenna ricevente o trasmittente ed è proprio questo che io e la mia squadra stiamo cercando di perfezionare.
Devo dire che in questi decenni la tecnologia e la medicina hanno fatto dei passi da gigante soprattutto per quanto riguarda i pacemaker cerebrali, sempre più all’avanguardia e vicini alla risoluzione di patologie che fino a dieci anni fa erano considerate non curabili.
Lo sviluppo delle mie ricerche è allineato proprio all’interfaccia fra elettrodi e cellule nervose, e come avanzare in questa connessione “innaturale” cercando di renderla più (bio)compatibile possibile, una sorta di unione fra naturale e artificiale.

Optogenetica

In “L’Impero Colpisce Ancora” il perfido Darth Vader taglia l’arto a suo figlio Luke Skywalker e in alcune scene dopo si vede la creazione di una mano artificiale. La medicina negli ultimi anni è riuscita, con le neuroprotesi, a trasformare ciò che era fantascienza in realtà.
Le cellule del cervello e i nervi sono dei dispositivi che funzionano attraverso stimoli elettrici e questi segnali possono essere artificialmente rigenerati o imitati per mezzo di diverse tecniche. Gli usi più comuni sono quelli degli impianti cocleari (orecchio) per coloro che hanno perso l’udito o non-udenti dalla nascita, ma anche per altri applicazioni quali il Parkinson grazie ai pacemaker cerebrali (inseriti dentro il cervello).
In pratica ci sono delle batterie microscopiche che vengono utilizzate per emulare le funzioni del sistema nervoso. Questo è l’aspetto più tradizionale degli usi delle neuroprotesi ma è possibile utilizzarle anche per il ripristino sensoriale a un amputato, della sensibilità tattile con dei segnali artificiali che arrivano direttamente ai nervi e poi al cervello.

Arto Bionico (2.1. Bpokel)

Un’ultima tecnica che si sta sviluppando, che probabilmente farà vincere il premio Nobel ai suoi tre scopritori, è la Optogenetica.
Questa si basa sulla manipolazione genetica delle cellule e dei nervi, donandogli fotosensibilità e facendole diventare come le cellule degli occhi, che si attivano grazie alla luce. Invece di stimolare le cellule con l’elettricità, lo si fa con la luce: se ho un deficit nella retina, per esempio posso creare o modificare le cellule rimaste per trasformarle in cellule fotosensibili con un vantaggio straordinario.
Questo tipo di tecnica andrebbe a interessare una singola cellula invece di un’area (quello che si fa con le stimolazioni elettriche) come se si dovesse parlare con un megafono a una sola persona provando a isolare tutto il resto.
Con gli stimoli elettrici si agisce sulla periferia, con l’optognetica si andrebbe invece proprio sulla cellula interessata.
Da dieci anni quasi tutti i laboratori di ricerca in neuroscienze, si sono attrezzati per studiare e sfruttare questa nuova tecnologia, ma ancora non ci sono neuroprotesi che funzionano con la “luce” ma sicuramente fra pochi anni sarà la norma.

Occhi artificiali e “super occhiali” in grado di donare la vista a un cieco.

Anche questa nuova tecnologia e protesi sembra uscita da un film di fantasia e invece esistono in Italia, nell’ospedale Careggi di Firenze e nel San Paolo di Milano, ambulatori che utilizzano Argus II, uno speciale strumento realizzato dagli studiosi della Second Sight Medical Products.
Chi è affetto da retinite-pigmentosa, una malattia che può colpire sia giovani che adulti, è in grado grazie a questi speciali occhiali di poter di nuovo avere una vista utile. L’occhio è come una macchina fotografica, ci sono delle lenti (cristallino) che vanno a filtrare la luce su una pellicola (retina), nel caso della retinite pigmentosa la parte malata è quella riferita alla “pellicola”.
Argus II è formato da tre elementi, il chip che s’impianta, sul fondo dell’occhio del paziente e fissato con una specie di chiodino. Questo comunica senza fili, in radiofrequenza, con gli occhiali al cui interno è posizionata una telecamera al centro della montatura che diventerà il nuovo occhio del paziente.
Le immagini vengono mandate al chip in bidimensione e scala di grigi, rielaborate e trasformate in impulsi elettrici che stimolano la retina per poi, dopo una buona riabilitazione diventare delle situazioni riassociate alla memoria visiva passata del paziente, donandogli di nuovo libertà di movimento e una nuova vita.
Il campo visivo è sui 20 gradi, come se si avesse un foglio A4 ad una distanza di un braccio, una piccola, ma importantissima finestra sul mondo.
Di: Alessio Vissani
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