Il lungo addio a Opportunity

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Il lungo addio a Opportunity

Illustrazione di Opportunity si Marte. (Cortesia NASA)

Anche se i tentativi di rianimazione sono ancora in corso, la NASA è sul punto di annunciare la morte del rover che si trova su Marte e che, con una missione durata ben 15 anni, è l’esploratore robotico più longevo del Pianeta Rosso.
Nel pomeriggio del 10 giugno 2018, il rover Opportunity della NASA, bloccato nella polvere, ha ricevuto un comando finale dalla Terra. “Scatta una foto del Sole”, ha trasmesso in codice il Deep Space Network. “Invia telemetria”.
Le macchine fotografiche del rover riuscivano a malapena a intravedere qualcosa, attraverso i vortici di polvere sollevati da una tempesta che spazzava il pianeta. Il cielo si stava oscurando e le batterie di Opportunity, alimentate dalla luce solare, si stavano scaricando. La risposta fu stentata. L’ultima immagine trasmessa mostrava che la radiazione solare era di un quarantesimo del suo livello pre-tempesta. La potenza dei pannelli solari era bassa: appena 22 wattora, rispetto ai normali 300, appena sufficiente per far funzionare un tipico robot da cucina per circa cinque minuti.
Sulla Terra gli addetti a Opportunity si preparavano affinché il rover resistesse alla tempesta di polvere, il peggiore evento di questo tipo mai osservato negli oltre quattro decenni di presenza di robot su Marte. Il 10 giugno il rover si svegliò brevemente, ma la sua energia era troppo bassa per mandare un messaggio a casa, e rimase in silenzio. Nelle settimane successive Opportunity si sarebbe raffreddato sempre di più. Tutti speravano che una volta che i venti fossero diminuiti e il cielo marziano tornato terso, i pannelli solari avrebbero potuto ricaricare a sufficienza il rover da risvegliarlo e indurlo a chiamare casa.
Così Opportunity restò in attesa che Marte si calmasse, come tutti coloro che tenevano alla missione. Finalmente, a settembre, dall’altra parte del pianeta arrivarono buone notizie; gli orbiter e il rover Curiosity videro l’atmosfera che si schiariva. Ma Opportunity rimase in silenzio.
Il personale della NASA cominciò a cercare di svegliarlo. Il 22 gennaio, avevano inviato 600 comandi
di recupero. Queste linee di codice non possono, per progetto, essere lamentose, ma gli esseri umani sì, e molti hanno iniziato a inviare messaggi, sia fra di loro, sia al rover: “Svegliati, Oppy. Ritorna”.
Oppy non lo ha fatto. La settimana scorsa i funzionari della NASA hanno annunciato una nuova serie di comandi trasmessi al rover ancora silenzioso per istruirlo, dirigerlo, reimpostare il suo orologio e dispiegare le sue antenne radio. Ma anche gli ottimisti ammettono che quest’ultimo tentativo ha una bassa probabilità di successo.
A quanto pare, molto presto l’agenzia sarà costretta a dichiarare ufficialmente terminata la missione del rover e il programma Mars Exploration Rover. Opportunity ha resistito per 15 anni sul Pianeta Rosso, 61 volte di più dei 90 giorni “garantiti”. Della famiglia di esploratori interplanetari della NASA, a Opportunity sopravviveranno il suo discendente Curiosity, e il suo cugino InSight. Il suo parente più prossimo, il gemello Spirit, è già morto.
Pur di fronte alla crescente certezza che il rover ha raggiunto la sua fine, molti scienziati e ingegneri della missione mostrano un misurato ottimismo, tanto da sembrare a volte addirittura quasi festosi. Ma la loro tristezza è palpabile. “Puoi sempre guardarti indietro e dire: ‘È una rover che ha superato le aspettative e ha fatto molto. Ma questo non fa scomparire il dolore”, dice Mark Lemmon, scienziato dell’atmosfera allo Space Science Institute. “È strano pensare di associare il dolore a una macchina. Ma fa parte della nostra vita. Ci preoccupiamo, pensiamo alla sua energia, all’uso che ne fa, come a qualcosa di cui ci si prende cura e si alimenta. Non è solo una macchina. Ovviamente lo è, ma è anche qualcosa che è collegato a tutti noi. Negli ultimi 15 anni delle nostre vite l’unico elemento costante è stato il rover su Marte”, osserva.
Crescere insieme

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Spirit e Opportunity, noti anche con il nome ufficiale di Mars Exploration Rovers A e B, sono robot geologi ben equipaggiati. Ognuno di loro è dotato di un “collo” lungo un metro e mezzo, con in punta una telecamera, e di strumenti per la macinazione delle rocce, palette e spettrometri multipli per scoprire minerali e composizione delle rocce. Sono stati progettati per durare tre mesi, e la NASA ne ha inviati due, in parte per mettersi al riparo dai rischi nel caso in cui uno non ce l’avesse fatta. “Nessuno, nel gruppo di ingegneri e scienziati, pesava minimamente che Opportunity sarebbe stato ancora operativo dopo 15 anni. È solo un veicolo americano ben fatto”, dice Ray Arvidson, ricercatore principale aggiunto della missione e planetologo alla Washington University di Saint Louis. Insieme, Opportunity e Spirit hanno rivoluzionato le nostre conoscenze sul pianeta più simile alla Terra.
Opportunity è arrivato sulla superficie di Marte il 25 gennaio 2004, in una piccola depressione chiamata Eagle Crater, appena 20 giorni dopo l’arrivo di Spirit sull’altra faccia del pianeta. Abigail Fraeman aveva 15 anni, era appassionata di astronomia e di Star Trek, e quella sera era al Jet Propulsion Laboratory (JPL) come vincitrice di un concorso sponsorizzato dalla Planetary Society.
“È stato fantastico. Quando ha inviato le immagini dell’Eagle Crater, erano completamente diverse da tutte le immagini di Marte che avevamo visto. C’erano sabbie lisce, scure, totalmente aliene”, ricorda. “Gli scienziati iniziarono a dire: ‘Accidenti, ci sono rocce stratificate, vedo strati che si incrociano,’ ed erano così eccitati. Era tipo: “Aspetta un attimo, sono capace di fare questo lavoro? Posso guardare quelle foto e capire quello che significano?”
Oggi Fraeman è la vice project scientist del rover, e fino a giugno ha trascorso le sue giornate di lavoro con ingegneri e scienziati per progettare le attività del rover. Dopo quella notte al JPL si è interessata di geologia planetaria al college per poi frequentare la Washington University, dove ha studiato con Arvidson. Molti geologi che studiano Marte hanno conseguito il dottorato sotto la sua guida; il suo Dipartimento di scienze planetarie e della Terra è un centro di riferimento per Opportunity e sede del Planetary Data System, che archivia e distribuisce ogni informazione che raccolta dai robot americani su altri mondi rocciosi. In un certo senso, la Washington University è la dimora spirituale di Opportunity, insieme al centro di controllo della missione al JPL e al centro di ricerca sui rover della Cornell University.

La prima immagine panoramica inviata da Opportunity, poco dopo il suo arrivo all’Eagle Crater. (Cortesia NASA, JPL e Cornell University)

Quando Fraeman ha accettato il lavoro al JPL, l’ex direttore della struttura, Charles Elachi, la aveva incoraggiata a tracciare un grafico che mettesse a confronto la sua vita con quella di Opportunity. Lei ha segnato pietre miliari come “diploma di scuola superiore” o “PhD” accanto a pietre miliari del rover come “il rover trova gesso” e “il rover raggiunge la distanza della maratona”. Ha ancora il grafico; “Basta guardarlo per rendersi davvero conto di quanto tempo è andata avanti questa storia”, dice. “Il rover ha segnato il corso della mia vita, letteralmente”.
Mulinelli di polvere e mirtilli
Opportunity e Spirit avevano il compito di trovare prove dell’esistenza di acqua antica su Marte e lo hanno fatto, in torrenti. Hanno trovato strane formazioni rocciose create dall’acqua corrente. Hanno trovato formazioni argillose che molto tempo fa avrebbero potuto ospitare microbi. Opportunity ha studiato più di 100 crateri, e ha percorso più di una maratona sulla superficie del quarto pianeta. Insieme, i rover gemelli hanno “dato vita” a Marte come nessun altro esploratore ha fatto prima di loro.
A un anno dall’inizio della missione, i pannelli solari dei rover avevano lentamente accumulato polvere – la regolite marziana è un materiale fine come la farina – e la loro capacità di assorbire l’energia solare era lentamente diminuita. Un giorno, i pannelli di Spirit erano risultati improvvisamente puliti. Gli ingegneri, perplessi, avevano scrutato attentamente i selfie del rover per capire che cosa fosse successo, ricorda Lemmon.
”È successo di notte. Dietro l’asta telescopica si potevano vedere le tracce: si vedeva una coda di polvere dove era soffiato il vento. Poi nelle immagini abbiamo iniziato a osservare mulinelli di polvere”, dice. “Abbiamo messo insieme una serie di immagini con le telecamere di navigazione e abbiamo prodotto decine e decine e decine di filmati di quei mulinelli. Erano fantastici, perché rendevano dinamico Marte. All’improvviso, potevamo guardare Marte e vedere quello che accadeva. Non era solo un pianeta disseminato di rocce”.
Grazie a Opportunity, anche le rocce hanno preso vita propria. Il rover ha trovato strane rocce “eoliche” scolpite dal vento, sfere ricche di ferro soprannominate “mirtilli”, addirittura meteoriti. L’autista del rover Heather Justice, il cui sedicesimo compleanno è coinciso proprio il giorno dell’arrivo di Opportunity, ha trovato una delle rocce più famose di tutte.
Dopo molti mesi di addestramento, Justice è stata autorizzata al suo primo viaggio in solitaria il 4 gennaio 2014. Il suo lavoro consisteva nel dire a Opportunity di girarsi, spostarsi un po’ da una parte e posizionare il braccio perforatore su una roccia che il gruppo voleva trapanare. Un paio di giorni dopo Opportunity ha inviato alcune immagini, in modo da poter verificare che si trovasse nel posto giusto. “Stavamo guardando la foto, c’era lo strato roccioso, ed ecco che uno degli scienziati esclama: ‘Ehi, c’è qualcosa che prima non c’era’. Sembrava che dicesse ‘Ehi, qualcosa ha danneggiato il rover?”. Justice ricorda: “Stavo per andare nel panico: ‘Non dirmi che ho rotto qualcosa durante il mio primo viaggio”.
Nell’immagine era apparso un oggetto bianco e rotondeggiante. Somigliava a una ciambella di gelatina. Il gruppo di Opportunity ha ordinato freneticamente al rover di scattarsi dei selfie in modo da poter capire se mancasse qualche pezzo, ma sembrava tutto a posto. Non su Internet, però. In tutto il mondo sono apparsi titoli in cui si speculava che l’oggetto fosse una forma di vita aliena, un messaggio degli alieni, e altre improbabili ipotesi. L’attore di Star Trek William Shatner, scherzando su Twitter, si era domandato se la NASA avesse considerato la possibilità di “lanciatori di rocce marziani”. Un privato cittadino aveva intentato un’azione legale sostenendo che la roccia fosse una spora fungina, e cercato di costringere l’agenzia spaziale a indagare.

Panoramica della Perseverance Valley ripresa da Opportunity nella primavera 2017. (Cortesia NASAJPL-CaltechCornellArizona State Univ.)

Alla fine, il gruppo aveva concluso che mentre Opportunity scavalcava una roccia, l’aveva capovolta raschiando un po’ di sporco dalla sua superficie ed esponendone così il bianco sottostante. “È un esercizio di equilibrismo davvero interessante per tutti noi capire come ottenere dati significativi con il minimo sforzo e senza mettere in pericolo il rover”, dice Justice. “Non c’è nessuno che lo guardi e lo fermi se qualcosa va storto”.
Justice osserva che la maggior parte dei membri del gruppo è affezionata al rover, ma sono più affezionati tra di loro, e ai rapporti umani che rappresenta la loro scatola di metallo pensante. “ Per noi, con tutto il carico delle nostre esperienze, è sempre emozionante stare insieme ed esplorare un altro pianeta. Il pensiero di perderlo…”, e la voce si fa tremula. “Non è solo la perdita dell’hardware, ma il pensiero di perdere il nostro legame con Marte”.
Il lungo addio
Il 14 settembre 2018, Opportunity sol 5204 – ossia 5204 giorni marziani, che sono leggermente più lunghi dei giorni della Terra – mi sono recata nell’ufficio di Arvidson mentre lavorava a un documento scientifico su alcune scoperte del rover nel luogo del suo riposo finale, vicino al bordo del cratere Endeavour. Arvidson e altri scienziati stavano discutendo la natura di una caratteristica simile a un delta che hanno soprannominato Perseverance Valley, “perché non avremmo mai pensato di riuscire ad arrivarci”. Potrebbe essere stata scolpita dal vento o essere opera dell’acqua. Il robot geologo stava cercando di scoprirlo.
Arvidson dice di essere concentrato sull’eredità del rover e ha descritto i suoi sentimenti come rassegnazione. Un’espressione volutamente misurata, da perfetto scienziato; ma anche lui parlava di Opportunity in termini antropomorfi, spiegando come, non avendo abbastanza energia, doveva “tornare a dormire”, e paragonando le sue gesta agli avventurosi viaggi di una sua cugina. Le riunioni telefoniche settimanali tra gli scienziati e il gruppo di ingegneri del JPL tenevano tutti aggiornati, ma erano anche una scusa per rimanere in contatto, come una famiglia allargata in ansia per una persona cara malata.
Arvidson c’è già passato. Ha lavorato in ogni missione su Marte fin da Viking 1, il primo lander a inviare una foto dalla superficie di un altro pianeta, e ha visto passare molti robot, da ultimo Spirit, il gemello di Opportunity.
Spirit è durato fino a marzo 2010, quando, in parte a causa di due ruote rotte, è rimasto bloccato in un letto di sabbia soffice. Non poteva girare i suoi pannelli verso il Sole, che stava lentamente calando sull’orizzonte invernale. La NASA ha dichiarato conclusa la missione nel maggio 2011 e durante quell’attesa di 14 mesi, Mike Siebert, un ex manager della missione, si recava di tanto in tanto al JPL nel bel mezzo della notte, a volte tra le 2 della notte e le 6 del mattino, sperando di sentire un segnale. “Ogni volta pensavo che poteva essere la volta buona. Ricevi un segnale di ritorno dalla sonda spaziale, e all’improvviso ti senti su di giri”, ricorda.
Siebert ha continuato a lavorare su Opportunity fino a giugno 2017, quando ha lasciato il JPL per un nuovo lavoro a Boulder, in Colorado. Seibert e la moglie si sono sposati cinque giorni dopo il suo ultimo turno. Volevano celebrare il matrimonio in un sabato estivo, così hanno scelto il 10 giugno: la data di lancio di Spirit. “Farà male perdere Opportunity, certo. Ma è la missione sulla superficie di un pianeta di maggior successo di sempre”, dice. “Quando il contatto è andato perduto, mi ha straziato non essere lì a cercare di capire, come poterlo ristabilire. Il massimo che posso fare, se mi capita di trovarmi a Pasadena, è comprare birra per i miei amici”.
Steve Squyres della Cornell University, principal investigator e padrino della missione, dice che la scomparsa di Spirit è stata nobile, e crede che lo stesso valga per Opportunity. “Ho sempre pensato che ci fossero solo due modi onorevoli per porre fine a questa missione. O logoriamo il rover fino alla fine, o Marte lo afferra e lo uccide, e non c’è niente che possiamo fare”, dice. Non sa dire come potrebbe sentirsi alla veglia per Opportunity, ma prevede un umore celebrativo e cupo allo stesso tempo: “Vedremo. Voglio dire, ho investito 30 anni della mia vita in questa impresa. A ogni passo le emozioni mi hanno preso alla sprovvista. Sembra davvero strano, ma al lancio è stato difficile dirsi addio. Ci si mette il cuore e l’anima in queste cose, e ci si lega a un razzo e lo si lancia nello spazio: È andato, per sempre. Quindi è stato difficile lasciarlo andare. Non me lo aspettavo”.
Quando all’ora di pranzo del sol 5204, Arvidson mi accompagna all’ingresso, dove ci fermiamo davanti a un modello in scala del rover, collocato vicino all’entrata della Rudolph Hall della Washington University. L’ho già visto, ma ogni volta mi sembra più grande di quanto ricordassi. I suoi pannelli solari, tesi come un fiore di loto verso il Sole, sono larghi come un divano. L’asta mi arriva all’altezza degli occhi e il suo braccio, con i suoi tre giunti flessibili, è più lungo del mio.
Guardo le telecamere, una delle caratteristiche che conferisce ai rover un aspetto simile a quello di un animale domestico. Lo immagino là, su un altro mondo roccioso a 200 milioni di chilometri da qui. I suoi pannelli solari sono incrostati da una sabbia farinosa color ruggine. I sui giunti sono cigolanti, le sue attrezzature rovinate, l’antenna graffiata dalla sabbia che colpisce. Sta guardando giù da un pendio, sulla strada verso un canale dove forse in epoca remotissima scorreva acqua, in un luogo soprannominato Perseverance Valley. Il cielo arancione è tinto dalla polvere, ma si sta schiarendo. La vista è sublime.
(L’originale di questo articolo è stato pubblicato su “Scientific American” il 31 gennaio 2019. )
Di: Rebecca Boyle/Scientific American
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