Biagio, il pane e le dita miracolose

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Biagio, il pane e le dita miracolose

San Biagio, una figura misteriosa poiché si situa per così dire in bilico tra storia e leggenda. Medico, santo e popolare, questo l’identikit di Biagio, passato alla storia come il vescovo di Sebaste (l’attuale Sivas nella Turchia orientale) in Armenia nel IV secolo d. C..
Il Pane, un bene prezioso e indispensabile, così sacro e così umano, un dono che non smetterà mai di stupirci e di cui, probabilmente, non saremo mai abbastanza sazi.
Il pane, una storia antica e plurimillenaria
Quella del pane è una storia lunga millenni. Una storia che cavalca i secoli, cospicua di sapienza, di poesia, d’arte e di fede. Abbraccia l’intera evoluzione del genere umano. Da sempre quindi, il pane è stato ed è il sigillo della cultura. Il pane è simbolo culturale, religioso e artistico, politico e sociale, marchio patrimoniale e culturale di tutto il globo, delle pluralità dei diversi popoli che abitano la terra, ciascuno con il proprio credo, la propria usanza e tradizione. Da sempre il pane accoglie numerose attenzioni sia per il suo valore alimentare, sia per la sua essenza simbolica. Del resto già grandi poeti e diversi storici dell’antichità classica hanno più volte evidenziato il valore del pane, nutrimento la cui esistenza si perde davvero nella notte dei tempi, come l’archeologia avrebbe in seguito confermato. La mitologia greca e latina narra che finanche gli dei avrebbero istruito gli uomini circa la sua preparazione: per gli Elleni fu Demetra, madre della terra feconda e delle messi; stando invece ai Romani l’invenzione necessitò addirittura di due abitanti dell’Olimpo, ovvero Cerere, divinità del frumento e Pan che insegnò a cuocerlo.
Il pane si chiama panis in latino e quindi pane da noi, pain in francese e pan in spagnolo proprio per rimarcare l’origine legata al dio in questione. In verità, il sostantivo greco significante pane, «artos», è da relazionare alla radice «ard», «farina» in persiano e ad «arta», dallo stesso significato in iraniano. La farina di cereali cotta appartenne dunque a civiltà antichissime; inoltre per il latino panis gli studiosi ipotizzerebbero un nesso con il verbo pasco, «nutrire, mantenere, alimentare».
Il cibo della fede, il pane sacro dei cristiani
In ebraico, lehem vale a dire «nutrimento»: i figli di Adamo indicarono così il pane, alimento principe oltre ad essere il più comune, fondamentale alla vita. Spezzato, non da tagliarsi, per il rispetto e la cura di cui doveva essere oggetto.
Ma il pane è l’assoluto protagonista della cristianità, presenza indiscussa nelle pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, là dove acquisisce definitivamente la sua essenza sacra. Tanti ne sono i richiami. Può presentarsi come intimamente connesso alle fatiche del lavoro: «Mangerai il pane col sudore del tuo volto» (Genesi 3,19). Mentre nella sua accezione più concreta e simbolica, dunque, il pane è un dono che giunge dall’alto, da reclamare con umiltà attendendolo con fiducia: il Siracide 29,28 conferma: «Indispensabili alla vita sono l’acqua, il pane, il vestito, una casa che serva da riparo». Nel Nuovo Testamento a sancire la sacralità del pane è senz’altro il suo profondo legame con la figura del Cristo. Diversi gli esempi: l’episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci, l’espressione «compagno» connessa etimologicamente alla fraterna condivisione del pane (cum+panis), «dacci oggi il nostro pane quotidiano» celebre e intrinseco insegnamento dato da Gesù ai suoi fratelli nella preghiera del Padre Nostro, da lui stesso istituita. Non meraviglia allora che Gesù stesso si faccia e si dica «pane»: come parola (Logos) e come carne del sacrificio; e il vino si faccia sangue nella eucarestia. In Giovanni 6,48-51, dopo la moltiplicazione dei pani, leggiamo: «Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Il pane e i santi, racconti di pace e di carità
E, allora, non sorprenderà scoprire come tante, nel corso della storia della cristianità, siano state le figure religiose e no che instaurarono, ciascuno a suo modo, un rapporto del tutto particolare e talvolta straordinario con questo alimento. Innanzitutto, scrittori ecclesiastici e Padri della Chiesa discussero a lungo sul pane e sulla sua importanza. Il martire Ignazio di Antiochia scrisse ai Romani perché non facessero nulla per scongiurargli il martirio: «Lasciate che io sia pasto per le belve, per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono il frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo» (Lettera ai Romani 4,1-2). Il grande Agostino nel De civitate Dei 17,4,4 lo assimila nella Scrittura, primo nutrimento dell’uomo. Compie inoltre un ulteriore passo e in un Sermone (357,2) del maggio 411 sancisce un parallelismo fra la pace e il pane: «Basta che tu ami la pace ed essa istantaneamente è con te. La pace è un bene del cuore e si comunica agli amici, ma non come il pane. Se vuoi distribuire il pane, quanto più numerosi sono quelli per cui lo spezzi, tanto meno te ne resta da dare. La pace invece è simile al pane del miracolo, che cresceva nelle mani dei discepoli mentre lo spezzavano e lo distribuivano».
Patrona dei panettieri è Sant’Elisabetta d’Ungheria. Se nei tanti dipinti viene ritratta con una ricco cesto di pani è perché Elisabetta d’Ungheria decise di abbandonare la famiglia, farsi mendicante e aiutare i malati, nutrendoli, procurando loro un letto e delle cure. Il pane che riusciva a raccattare lo nascondeva e lo donava ai più poveri; una volta scoperta, mutò i pani in petali di rosa. Non mancarono vere e proprie esperienze eroiche, eventi miracolosi divenuti leggenda. Mi riferisco in particolar modo alla storia di Biagio, vescovo di Sebaste, venerato come santo sia dalla Chiesa cattolica che dalla Chiesa ortodossa, il suo culto è piuttosto diffuso e attestato fin dai primi secoli; rientra senz’altro nella rosa dei Santi Ausiliatori, il che dimostra che fu tra i santi più adorati e celebri per ben oltre un millennio.
Biagio, santo del pane e protettore della gola
San Biagio è una figura misteriosa poiché si situa per così dire in bilico tra storia e leggenda. Medico, santo e popolare, questo l’identikit di Biagio, passato alla storia come il vescovo di Sebaste (l’attuale Sivas nella Turchia orientale) in Armenia nel IV secolo d. C.. Si narra che la sua professione da medico fosse esercitata precedentemente alla sua salita sulla cattedra episcopale, rientrando in quella categoria di medici pietosi, detti anche anargiri, che prestavano cure gratuitamente agli ammalati. Leggenda vuole che nel 314, nel corso della persecuzione predisposta dall’imperatore Licinio (in lotta con il suo cognato e anch’egli imperatore Costantino I, il quale aveva concesso la libertà di culto ai cristiani secondo l’editto di Milano del 313) il vescovo trovasse riparo su di un monte non distante dal centro abitato. La grotta dove lo si volle nascosto divenne rapidamente scenario di prodigiosi eventi. Uccelli e animali di ogni sorta si davano appuntamento innanzi al santo per portargli da mangiare e lasciarsi benedire da lui. Molte furono le bestie malate o ferite che trovarono guarigione presso il vescovo. Si racconta che i pretoriani del prefetto di Sebaste, mandati da Biagio con l’ordine di arrestarlo, lo scorsero circondato da orsi, tigri e leoni. Biagio venne imprigionato, torturato e infine, poiché non aveva alcuna intenzione di abiurare la sua fede, fu decapitato il 3 febbraio del 316. Il mito sostiene che il Santo sia stato martoriato con pettini di ferro in seguito entrati a far parte dell’iconografia classica, che lo delinea vestito con i paramenti da vescovo, il pettine in una mano oppure le due candele incrociate. Dopo l’arresto, durante il trasporto verso il tribunale furono compiuti alcuni dei miracoli a lui accreditati e più conosciuti.
Mentre fu condotto verso la città gli si avvicinò una donna con in braccio un fanciullo che era sul punto di morire soffocato da una lisca. Biagio fece il segno della croce, benedì una mollica di pane, e, una volta fatta ingoiare al bambino, riuscì a salvarlo. Miracolo. Questa potrebbe essere definita come una vera e propria leggenda di fondazione del patronato di Biagio sulle malattie dell’apparato orofaringeo.
Una vedova a cui un lupo aveva derubato il solo maiale che avesse per nutrire i propri figli, gli si rivolse supplicandolo, ed egli fece sì che il lupo placato restituisse il maiale. La donna fu talmente contenta che, venuta a sapere dell’incarcerazione del vescovo, gli offrì parte del maiale cucinato accompagnato dal pane. Il santo accolse il dono e le disse di donare ogni anno in una chiesa edificata a suo nome un pane e una candela e che ne avrebbe avuto salute.
Il culto di San Biagio
In quanto medico è a lui che i fedeli intercedono per la cura dei mali fisici e in particolare per la guarigione dalle malattie della gola. Ancora oggi, in diversi paesi italiani il giorno che celebra il santo, il 3 febbraio, dopo la liturgia eucaristica il sacerdote tocca la gola dei fedeli con dell’olio benedetto e accostando ad essa due candele. Per questo è anche patrono degli specialisti otorinolaringoiatri. E, nello stesso giorno, si è soliti consumare ritualmente i cosiddetti panini di San Biagio – detti anche dita in quanto avevano la forma di un dito – ai quali viene conferito il potere miracoloso di sanare tutte le malattie della gola. Una vera e propria garanzia di guarigione. Una distribuzione di pane che accomuna paesi europei e numerose cittadine italiane, ove si benedicono e gustano panini dalle più svariate forme, le quali alludono alle diverse parti del corpo che s’intende proteggere o guarire.
A Roma, nella chiesa significativamente soprannominata San Biagio alla Pagnotta, si distribuivano pani che avevano la forma delle parti malate, dei veri e propri ex voto anatomici e nella Milano popolare si usava mettere da parte una fetta di panettone il giorno di Natale per consumarla in occasione della festa di San Biagio. Per questo il vescovo di Sebaste è stato, e in parte è ancora, uno dei santi popolari del mondo contadino, un difensore dei deboli, il campione dell’umanità minore che ha tanta parte nella costruzione dell’identità e dei caratteri nazionali. (Marino Niola)
Nelle rappresentazioni iconografiche, il Santo si mostra in abbigliamento episcopale con un pettine di ferro come simbolo del martirio subito. In altre circostanze sono raffigurati i celebri miracoli della guarigione del bambino e della restituzione del maiale. Il simbolo più tipico è quello dei ceri incrociati.
Il culto e la Chiesa di San Biagio a Marigliano
Un culto, quello di San Biagio, molto diffuso tra la popolazione di Marigliano. Se in passato, in occasione della festività del Santo, nello spiazzo antistante il Palazzo ducale andava in scena la benedizione degli animali, oggi è invece è ancora florida la tradizione del “pagnottino” benedetto che, ogni 3 febbraio, protegge i devoti dai mali della gola.
Marigliano gli consacra anche un edificio religioso. La chiesa di S. Biagio (o anche della Trinità) vanta origini piuttosto antiche. Nel 1500 vi ebbe il patronato la Famiglia De Ruggiero. Dalla numerazione dei fuochi del 1522 veniamo a conoscenza dl fatto che Gesuè De Ruggiero, nato a Marigliano nella seconda metà del XV secolo, nobilitò e arricchì la sua casata. Fu, infatti, Maggiordomo di Isabella d’Aragona figlia di re Alfonso II e resse alcuni possedimenti degli Sforza di Milano. La Chiesa, che dal XVIII secolo fu sede della Congrega di S. Maria degli Angeli, è barocca nell’insieme, a una sola navata, e conserva l’”Assunta” lignea e il busto di “S.Biagio” del Settecento. Nel soffitto della chiesa è posta “l’Assunzione di Maria con la SS.Trinità“, eseguita il secolo scorso da Elia Di Pinto. Domenico ed Elia Di Pinto, padre e figlio, operarono in Marigliano nella seconda metà del secolo passato e nei primi del nostro. Domenico, molisano, sposò una donna locale e a forza di sacrifici acquistò una casetta nel vicolo delle Carceri. Spirito ribelle, affogava nell’arte le amarezze e le delusioni della vita. La compostezza formale conferisce alle sue sculture una serena bellezza. Ci ha lasciato, tra l’altro, la statua di S. Sebastiano sull’omonimo ponte. Si narra dio come abbia avuto a modello una bella popolana del rione Torre. Il figlio Elia, nonostante la bravura, non ebbe fortuna. Dovette emigrare negli Stati Uniti d’America, dove ha lasciato importanti opere in chiese cattoliche.
Di: Marco Scarfiglieri
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